Motivazione e formazione all’Ultramaratona: l’uomo corre dall’origine dei tempi.
Di Andrea Accorsi (Ultramarathon Working Team)
Due milioni di anni a rincorrere un pasto quotidiano hanno plasmato l’uomo fabbricandone il corridore con maggior resistenza dell’universo. Se da un lato ha palesato limiti nella velocità, di secolo in secolo migliorata ma pur sempre circoscritta a determinati valori, dall’altro ha dimostrato di possedere un cervello con caratteristiche di adattamento allo sforzo prolungato, assai più duttile rispetto alle altre specie animali.
Non è quindi da escludere che il mistero della sopravvivenza del genere umano stia in buona parte aggrappato a questo assioma: più resisto e più sopravvivo. Se parto da così lontano per cercare le radici di qualcosa di così “nuovo” dal punto di vista sportivo, come l’ultramaratona, un motivo c’è. Nel 2004 la prestigiosa rivista Nature dedica la copertina del mese di novembre a una ricerca insolita. Si tratta dello studio di due scienziati, Dennis Bramble e Daniel Lieberman che dimostrano come l’evoluzione abbia selezionato nella nostra specie alcune caratteristiche che la rendono, unica tra i primati, specialista nella corsa di resistenza.
Ci sarebbe da porsi immediatamente una domanda: perché?
La risposta ce l’ha data la storia stessa dell’umanità: la possibilità di correre, e di farlo per lunghi tratti e per tanto tempo, ha aperto nuovi orizzonti alimentari all’uomo. Un ruolo determinante nell’evoluzione dei nostri antenati l’ha avuto proprio l’introduzione di nuove fonti di cibo: un maggior numero di calorie e proteine supplementari a integrare la dieta quotidiana hanno permesso al nostro cervello di svilupparsi trasformando il limitato processo dell’Australopiteco nel modello assai più evoluto proprio dell’Homo Erectus. Non dobbiamo dimenticare che all’epoca (un milione e mezzo di anni fa), la caccia, e di conseguenza la scorta alimentare proteica, dipendeva da fattori assai limitati e limitanti: non esistevano arco e freccia, e nemmeno lance (la cui invenzione risale a circa trecentomila anni fa). Di conseguenza, armati di soli bastoni, i nostri progenitori avevano un’unica risorsa per sopraffare prede assai più veloci di loro: sfinirle a furia di inseguirle. E’ quella che viene definita “persistence hunting”, caccia persistente. E prima ancora di entrare nella disamina tecnica e storica dell’argomento, è bene sfatare alcuni luoghi comuni, figli dell’ovvio di serie, che imperano da troppo tempo nell’ambito dello sport in generale.
Primo tra tutti, e indiziato numero uno nel caso dell’ultramaratoneta di buon livello, quello che vuole costui, così come qualsiasi altro praticante di valore (trattasi di scacchi o tennis non fa testo), dotato di una genetica superiore alla massa. In parole povere: “portato per…”. La scienza e la storia in primis, hanno dimostrato come questa codificazione di una presunta predisposizione sia quanto mai fasulla, fondata unicamente su qualcosa di assai più materiale e umano: le nostre paure. Frasi come “poco portato per la musica…” o “non ha il fisico…” per non parlare di “negato per la matematica…”, circolano dalla notte dei tempi e glissano un modus vivendi altrui senza via di scampo. Già dalla nascita, addirittura…
Ci si rassegna. Infatti il corollario implicito è che se le cose stanno così, noi comunque non abbiamo alcun potere per gestirle o cambiarle. Quindi, se definiamo qualcuno “non portato per la matematica”, gli diciamo in realtà due cose: la prima è che se in fondo va male in matematica la colpa non è del tutto sua, visto che Madre natura è stata avara. La seconda, molto più grave da un certo punto di vista: da oggi in avanti evita pure di impegnarti oltre per migliorare, perché tanto non è correggibile. Questa mentalità è sostenuta da un ricorso semplicistico e sconfinato alla genetica, per mezzo della quale si vorrebbe dare una patina di legittimità scientifica al proprio arrendersi. Forma mentis che inquina da sempre il mondo dello sport. E dire che siamo pieni di esempi contrari, dove l’abnegazione e la voglia di credere in un sogno hanno prodotto medaglie olimpiche alla vigilia impensabili. Il perché è ovvio: attribuire il successo degli altri a doni piovuti dal cielo, ci salvaguarda dal doverci impegnare a nostra volta e ci crea un alibi ancor prima di avere ottenuto un eventuale insuccesso (parte dello sport, come della vita).
L’altro motto dell’ovvio che accompagna quasi tutte le disamine in materia di ultramaratona (in Italia), è quello che definisce il praticante come colui che ha maturato una certa esperienza, quindi avanti con gli anni. Sentiamo spesso voci come: “ci vuole esperienza…”, “ci vuole maturità…” per affrontare tanti chilometri. Sfatiamo un binomio fasullo: esperienza o maturità sono due termini che non necessariamente fanno rima con età. Se da un lato è vero che il bagaglio delle esperienze di un uomo si definisce nel corso della sua vita, quindi con il passare degli anni, non è altrettanto giusto sostenere che questo sia un elemento di valutazione scientifico per inquadrare colui che si avvicina all’ultramaratona. Ognuno di noi ha nel proprio vissuto elementi diversi che hanno contribuito a formare l’uomo che ne è risultato. Qualcuno è stato in grado di svilupparne parecchi e importanti di suddetti elementi, anche a discapito di un’età giovane. Altri, pur avendo all’anagrafe superato gli “anta”, non si sono alimentati di altrettante esperienze significative. La dimostrazione che l’equazione età=maturità e per associazione maturità=resistenza non è un assioma, ce la forniscono da anni gli americani, i giapponesi e gli africani. E’ sempre maggiore il numero di atleti al di sotto dei 25 anni che primeggia in discipline di resistenza. E’ forse il caso di tornare al discorso di prima?
Le motivazioni possono fornire una valida risposta a tutti questi quesiti. Ma cos’è la MOTIVAZIONE? A cosa serve?
Troppo spesso di parla di soggetto e spinte soggettive ma è prima di tutto la realtà a indicare la strada. Le motivazioni si fanno strada, una volta che la realtà ha avuto il sopravvento, lanciando in avanti la dritta giusta, quella risolutiva, o, più semplicemente, l’azione che attendevamo.
Il capolavoro imperfetto, come la nostra vita.
Capolavoro che nasce dalla realtà e soltanto dopo viene afferrata dalle motivazioni.
Prima di occuparci delle motivazioni che spingono un uomo a diventare un atleta e un atleta a diventare un ultramaratoneta, buttiamo un occhio a qualcosa di assai più comune: il mondo del lavoro.
In genere, già da ragazzi si sceglie la professione che si farà nella vita adulta, anche perché il prepararsi a svolgere un lavoro comporta un percorso di studi e di praticantato lungo e impegnativo (ne sanno qualcosa gli studenti universitari!).
Una delle condizioni per avere successo e portare a termine il proprio progetto, di studio o professionale, è essere motivati a farlo. La scelta di svolgere un lavoro è principalmente dettata da tre fattori:
– incentivi economici, per cui si sceglie un lavoro per il guadagno che ne consegue;
– bisogno di affiliazione, per cui si sceglie un lavoro per potere stare con altre persone, sentirsi parte di un gruppo, sentirsi accettati;
– bisogno di autorealizzazione, in base al quale attraverso il proprio lavoro si esprimono le proprie attitudini e passioni, si cresce sia a livello professionale che personale.
Per essere soddisfatti della propria professione, idealmente sarebbe auspicabile vedere realizzati tutti questi bisogni, ma l’ultimo di quelli sopra citati risulta indubbiamente il più importante.
Capita spesso di sentire studenti che hanno una sorta di blocco nello studio. In questi casi, se si analizza accuratamente la situazione, si può intuire che è venuta meno la motivazione, ed è importante chiedersi il perché questo sia successo. Una prima domanda da porsi è: come mai si è scelta quella particolare scuola? Si volevano accontentare i genitori? Non ci si voleva separare dalla fidanzata del liceo? Si è seguita la moda del momento? Queste, ed altre simili motivazioni non sono abbastanza per darci la forza di fare tanti sacrifici e di essere in futuro un bravo professionista nel settore scelto o, comunque, una persona realizzata.
Si sente spesso parlare persone che, anche se finalmente arrivati ad una buona posizione lavorativa, economicamente agiati, abbandonano tutto per seguire quella passione che si portavano dietro da bambini, e che per anni avevano dovuto celare per anteporre i desideri di altre persone ai propri o perché, per vari motivi, ritenevano fosse la cosa migliore da fare.
Sarebbe bene, prima di prendere qualsiasi decisione che influenzerà il resto della nostra vita, chiederci se ciò che scegliamo è ciò che realmente vogliamo, ascoltando quella parte di noi che ci sforziamo ahimè di far tacere, perché prima o poi quella parte tornerà prepotentemente a farsi sentire e le conseguenze di una scelta sbagliata inizieranno a pesarci. Come si dice, “prima o poi tutti i nodi vengono al pettine”.
Ma è bene mettere i puntini sulle “i”, cercando di non confondere il concetto “MOTIVAZIONE” con qualcosa di assai più terreno, ma altrettanto basilare, ovvero la “FORMAZIONE”. Sono due precetti che talvolta vivono in contrasto, ma la colpa di questo scontro non è certamente da ricercare nella loro origine, bensì nell’evoluzione che l’essere umano ne ha prodotto.
Nella Grecia del IV secolo, la paidèia, l’ educazione, aveva chiara la sua definizione ed il suo scopo; essa esisteva per far giungere la persona all’aretè, all’eccellenza, affermava Aristotele, alla virtù accompagnata da specifiche abilità, sempre sottoposte a costante e concreta verifica. La razionalità della formazione era già allora performativa, cioè legata alla realtà personale sempre in atto di trasformarsi fino all’eccellenza ed anche oltre. Le possibilità e le risorse dell’ uomo, al centro della formazione, facevano da centro gravitazionale della civiltà. Così è nato l’ Occidente, così è cresciuta la nostra civiltà.
Oggi si assiste ad un fenomeno di espansione generalizzata priva di una reale e concreta base. C’ è una crisi radicale della formazione, non esistono più modelli adeguati allo stato della realtà delle persone, dei loro bisogni e delle loro domande. Ogni crisi è un’opportunità, lo sappiamo bene, ed anche da questa crisi emergerà una nuova strada per la libertà e la verità della persona.
Proprio questo è il punto essenziale: la formazione non esiste per autoalimentarsi in astratte teorie oppure in un business ingordo; no, la formazione esiste per la persona e soltanto per essa. Così è nata, per la persona è nata e per essa continuerà ad esistere. Ebbene, oggi la formazione è strangolata da una duplice morsa: da un lato, dal mercato, che domanda in misura esponenzialmente crescente tecniche e know-how; dall’altro, da tutto ciò che viene definito motivazione, un impasto fluido e francamente incolore di pensiero positivo, personal coaching ed affini. Qual è il risultato?
Lo spappolamento dello scopo centrale ed essenziale della formazione: la crescita integrale della persona.
Gli esiti tecnici-tecnocratici e motivazionali della formazione altro non sono che cascami del passato Novecento. Perché riducono l’ uomo ad homunculus, come direbbe Frankl, operano un riduzionismo selvaggio, senza prendere minimamente in considerazione l’ integrazione e la connessione dei fattori individuali specifici della persona e delle sinergie naturali e psichiche con l’ambiente (la grande scoperta della Gestalt).
Ne risulta un oggetto della formazione, non un soggetto vero e proprio, un consumatore di tecniche e di motivazione, un atleta senza scopo e senza anima, manipolato al fine di diventare sempre più consumatore e sempre più esecutore di performances ritenute efficaci, sempre naturalmente secondo i criteri del mercato.
Questa è una sacralizzazione indebita della tecnologia in ambito di formazione, l’ estensione di un criterio non personalistico, e perciò non congruente, nello spazio della formazione. Questo è stato l’ intero Novecento, e tutto questo è finito, defunto.
E allora come si amalgama il binomio MOTIVAZIONE-FORMAZIONE, nel rispetto di quell’antico operato che agli albori del mondo portò l’umanità a picchi così elevati? Come si recupera l’essenza di questi precetti e soprattutto, argomento che interessa l’ultramaratoneta da vicino, come si applica all’ambito sportivo?
In parole povere: come si fa ad inoculare motivazione in una persona che ha bisogno di crescere nella conoscenza di se stessa, di fare un percorso autentico di maturazione, di autoesplorarsi e di accrescere le sue risorse specifiche?
Questa è la domanda. Inoltre: a cosa serve insegnare tecniche senza orientare l’atleta e più in generale “la persona” all’interno della complessità della sua vita, con gli stati emotivi, razionali, inconsci che questa ogni giorno mette in campo?
Se un atleta non si confronta con le sue ombre e le sue difficoltà, i suoi dubbi, le sue contraddizioni, non crescerà mai nell’autostima, nella consapevolezza, nell’ethos individuale.
La risposta alla prossima puntata dell’ Ultramarathon Working Team